I pensieri del capo

Gianni, Montelabbate-Pesaro, 1974

Tratto dal libro: “40 anni di ciclismo amatoriale nel fermano (e un po’ più in là)” di Euro Teodori – Capodarco Fermano Ed. 2005

Caro Euro,

sei una persona amabilissima, cortese e colta. Con quella tua presenza imponente, ma discreta, lasci trasparire l’uomo che la vita non se l’è fatta scivolare addosso, ma che l’ha presa per le corna e domata. Probabilmente è questo il motivo di quella tua personalità ammaliante che rende un raro piacere la conversazione con te.

Di questo ti ringrazio, perché sei merce rara, difficilmente reperibile sul mercato, ma non ti dà il diritto di approfittare in maniera vigliaccamente ruffiana delle persone che rimangono ammaliate dalle tue perle di saggezza. Non puoi. Non è giusto che tu vada in giro a rubare emozioni e ricordi, a strappare lembi di vita vissuta. Dovevi chiedermi altro, magari cosa faccio per campare; quali sono le mie preferenze politiche; a quanto ammonta il mio conto in banca; se sono legato a qualche loggia massonica. Tutto, ma non quella domanda. È troppo intima, tanto da renderla senza senso. O da richiedere una risposta senza fine. No, non voglio risponderti. Perché dovrei? Non voglio frugare nella soffitta dei ricordi per te, dovrei fare un volo pindarico nel tempo e tu m’insegni che quando si fanno certe operazioni, dal passato non riaffiora solo il bello, ma riemerge tutto, anche le cose meno piacevoli, fatti e situazioni che tracciano il solco sul quale un bambino seminerà la propria vita.

Perché dovrei ricordare che negli scambi di figurine fra coetanei rinunciavo volentieri ai vari Sivori, Altafini, Rivera… (facevo eccezione solo per Mora, Riva e il povero Gigi Meroni), a favore di Zancanaro, De Rosso, Mazzacurati, Bailetti, Bariviera, Deprà, Lucillo Lievore, Pifferi e tutti gli altri che mi servivano per completare il gruppo dei Gimondi, Adorni, Motta, Dancelli, Bitossi, Zilioli, Chiappano, Balmamion, Stablinski, Sels, Junkermann, Van Springel, Janssen, Planckaert, Van Looy? Era emozionante avere fra le mani quei corridori che spronavano la mia fantasia di bambino, quegli stessi volti che servivano, poi, per fare delle spassosissime partite a “tappitti”.

Si prendeva il tappo in metallo delle bottiglie, si scaldava con la candela per staccare il sughero interno (il tappo migliore era quello dell’aranciata San Pellegrino, con la bottiglia bassa e tozza), poi si ritagliava l’immagine del corridore dalla figurina, si ricopriva di nylon e si incastrava nel tappo. Tutti i posti erano adatti per giocare, dalle bianche scale di marmo della chiesa al selciato davanti all’uscio di casa: bastava segnare con un ciuffo d’erba una pista e via con la fantasia a correre la Milano-Sanremo, il Giro d’Italia, il Tour…

Carpegna maggio 1974Giro d’Italia, Carpegna, maggio 1974 – Giampiero, “Lu Moru”, “Colonna”, Dino e Gianni

Perché dovrei ricordare le riunioni “tipo pista” dei professionisti sulla terra battuta dell’Ippodromo San Paolo? Regalarti le mie sensazioni nel vedere Anquetil tirare fuori dal bagagliaio dell’auto la sua bici da pista, o il monumentale Altig che, sorridendo, mi prese con una mano e mi sollevò come fossi un fuscello, solo perché ero rimasto lì, a fissarlo con la stessa bramosia di un bambino davanti alla vetrina di un pasticcere.

Perché dovrei ricordare quando in paese, negli anni ’60, in occasione della festa del Patrono, si organizzava un’importante corsa per dilettanti? Ero sempre lì a gongolare nel vedere i corridori vestirsi, gonfiare le bici, preparare il rifornimento e il borraccino da tenere nel taschino dei pantaloncini. La sensazione più suggestiva era sentire l’acre e pungente odore dell’olio canforato mischiato alla Sifcamina (la pomata per massaggi). Per non parlare della gioia quando un corridore mi regalò il suo cappellino: l’ho conservato per anni, come una reliquia. Per molti i nomi di De Martino (pedalava sempre con la croce della catenina in bocca), Giuliani, Lezzieri, Mancini, Pierini, Pisauri, Linardelli, Ceccarelli, Calcabrini, Urbani significavano poco, per me, invece, anche se ancora bambino, erano i corridori da riconoscere alle corse.

Perché dovrei ricordare che al lunedì mattina, quando c’era ancora il quotidiano “Stadio”, correvo al bar per leggere i risultati delle gare dei dilettanti che si erano svolte il giorno prima in tutta Italia?

Perché dovrei ricordare le mitiche tappe del Giro in televisione? Polidori che nel 1968, alle Tre Cime di Lavaredo, fu ripreso dal “Cannibale” a 500 metri dall’arrivo. O il “Processo alla Tappa” di Sergio Zavoli con Taccone che litigava con tutti, Adorni elegante e con una dialettica forbita da uomo istruito (cosa alquanto insolita per il ciclismo dell’epoca), Gimondi timido e taciturno, Motta spavaldo ed esuberante, Bitossi con quel simpatico intercalare toscano, Zandegù rude e casinaro.

Perché dovrei ricordare quella favolosa crono di San Marino (1968) vinta da Gimondi su Merckx in maglia rosa?

Perché dovrei ricordare quella memorabile giornata di maggio del 1974 sul Monte Carpegna? Lo scalammo a piedi (il percorso fu chiuso in anticipo) immersi in una fitta nebbia e sotto una leggera pioggerellina, con sulle spalle le pesanti borse stipate di cibo, fino alla cima. Dieci chilometri con altre migliaia di persone, come in una processione pagana. In quei momenti ti accorgi che la passione per la bici, a differenza di altri sport, ha un grande potere taumaturgico, trasversale ad ogni ideologia politica e religiosa, accomuna le persone, unite da un unico interesse e non conosce violenze. Non ho mai visto sulle strade di tutta Italia tifosi fare “cagnara”. Mai. Ricordo con piacere, invece, gli accampamenti sul prato in attesa dei corridori, le bevute e le pantagrueliche “magnate” insieme con i tifosi di Saronni, io che ovviamente ero per Moser. Unica concessione gli allegri sfottò fra una fazione e l’altra.

Dieci chilometri di scarpinata per vivere quell’attimo del passaggio dei corridori, per un fotogramma che diventa eterno nella memoria. Una lunga camminata “solo” per vedere l’esile scalatore spagnolo Josè Manuel Fuente (portava sempre un fazzoletto sotto la manica sinistra) tirare un rapporto impossibile, durissimo per quelle pendenze. Fuente in salita era l’unico spauracchio per Merckx, che arrivò dopo un paio di minuti, ingobbito sulla bicicletta, con la bava alla bocca e una tragica smorfia di dolore in faccia: ondeggiava vistosamente con le spalle cercando disperatamente di contenere il ritardo.

Che spettacolo! Momenti unici e irripetibili!

Perché dovrei ricordare che anch’io ho provato a emulare quei campioni? Era inevitabile. Iniziai con i Giochi della Gioventù. Ricordo la prima gara, a Lido di Fermo, mi truccarono la data di nascita perché ero troppo piccolo, indossavo una maglia “Bianchi” che mi arrivava alle ginocchia, calzettoni lunghi e scarpe della cresima, arrivammo in due: feci secondo. Poi arrivarono le gare con i cicloamatori. Erano i primi anni ’70, (1971 per la precisione) fummo i pionieri di un bel movimento che, purtroppo, nel tempo si è irrimediabilmente guastato. A quel tempo ritrovarsi alla domenica era una festa, finiva sempre tutto con grande allegria. Infine, le corse con gli allievi e i dilettanti. Ero un corridore completo ma non capivo perché andavo piano dappertutto. Come disse Totò: “Signori si nasce ed io modestamente lo nacqui”. Così fu per me: “Scamorza si nasce e io altrettanto modestamente lo nacqui”.

Giro d’Italia, Carpegna, maggio 1974 -

Giro d’Italia, Carpegna, maggio 1974 – “Colonna”, “Lu Moru”, Dino e Gianni

Fu un mio grandissimo amico, purtroppo scomparso, profondo conoscitore del “Verbo” ciclistico (da lui sentii la prima volta la parola “Tiralento”) che con una spietata diagnosi, mi fece capire perché a tanta devozione non corrisposero mai risultati apprezzabili. Mi disse che, ciclisticamente parlando, avevo contratto la “Trainite”, una rara e grave forma di malattia, ancora oggi incurabile e contagiosa, per chi è nato e vissuto in una certa zona del mio paese.

Contrariamente a Oscar Wilde, che sapeva resistere a tutto tranne che alle tentazioni, pur avendo a disposizione altri 30 anni di memorie non vado oltre nel motivarti il mio rifiuto di rispondere alla tua domanda. Come nella vita di coppia – questa è una delle metafore che ci offre questa passione- se il rapporto è solido l’innamoramento e l’attrazione iniziali mutano inevitabilmente nel tempo: l’innamoramento diventa affiatamento e l’attrazione diventa rispetto. Così il mio amore per la bici e il suo mondo non è mai scemato. Anzi la mia sete di conoscenza, la voglia di continuare quel viaggio introspettivo – fonte inesauribile a cui mi sono sempre abbeverato per avere quell’energia mentale in modo da prendere la vita “per le corna” – mi fa vivere oggi questa passione in maniera morbosamente viscerale ma con una disincantata ed ironica leggerezza .

Nel tempo ho fatto stringere una solida amicizia fra la bici e la fotografia, l’altra mia antica debolezza. Altra suggestiva disciplina fatta di sensazioni, ermetica, complessa e marcatamente ispirata, capace di farti liberare dall’inconscio anche le emozioni più recondite. Immortalare in una frazione di secondo qualcosa per te importante, significa notificare al tempo il tuo stato d’animo in quel preciso momento.

Vedi caro Euro, tutto questo e altre sensazioni, come fare un giro in bici in perfetta solitudine; ascoltare la magica tromba di Miles Davis; guardare un tramonto sapendo che non sarà mai uguale ad un altro; percepire i più sottili, sapidi profumi di un buon vino; o – cosa sconvolgente – vedere lo sguardo affettuoso delle mie due figlie, sono i motivi per cui vale la pena essere qui. Ho un sentimento di eterna gratitudine per chi mi ha dato la possibilità di bearmi di tutto ciò, così come coltivo la speranza che qualcuno domani possa di respirare queste stesse sensazioni.

Ed è sicuramente bello poter materializzare questi stati d’animo, magari insieme con chi è sintonizzato sulla tua stessa lunghezza d’onda. È per questo motivo, che con selezionatissimi amici, vecchi e nuovi, ho fondato una società ciclistica battezzandola con il nome di “Tiralento”, un nome diventato il cordone ombelicale che lega cinquanta anni di vita. Quando possiamo ci ritroviamo per delle goliardiche uscite in bici, anche se devo confessare che ci riescono meglio i “raduni” intorno a una tavola imbandita.

Qualcuno del gruppo cerca anche di provare l’ebbrezza effimera della gara, rimanendo, però, sempre razionali, condizionati dal “primo articolo” del nostro “Codice Etico”: prima di uscire in bici bisogna espletare i “compiti di casa”. Qualcuno perché è duro di comprendonio, altri perché hanno paura di essere interrogati, così alla fine tutti ripassano più volte la lezione. Risultato: nell’anno appena passato abbiamo dato un buon contributo all’incremento demografico del Paese.

Il nostro tasso agonistico, invece, è prettamente epistolare, con i messaggi via smartphone”. Ma va bene così: abbiamo quella sana consapevolezza di fare la cosa giusta e con lo spirito giusto. La “carriera” ciclistica si costruisce a vent’anni. La natura insegna: ogni stagione ha i suoi frutti, così ci sembra ridicolo e infantile fare i “corridori” in ambito amatoriale, soprattutto a quarant’anni e oltre.

Purtroppo, da qualche anno la miseria culturale di molti individui piombati arrogantemente nell’ambiente, senza avere il minimo sindacale di cultura ciclistica, ha contribuito a popolare il movimento di “ stolti, nani e ballerine” con l’irrimediabile depauperamento di quel patrimonio genetico lasciato in eredità dai “pionieri” di questo movimento, un piccolo gruppo al quale appartieni anche tu, caro Euro.

Mondo, Prati di Tivo, 1975

Giro d’Italia, Prati di Tivo, 1975 – Mondo, a lui si devono i neologismi “Tiralento” e “Trainite”

Fra i cicloamatori si è perso il senso pratico delle cose, la saggia misura non esiste più. C’è una sorta di delirio collettivo, alle gare vedi corridori con le radioline, ex mediocri dilettanti che assurgono a ruoli di campionissimi, gente che passa da una società all’altra attirati da ingaggi più lucrosi, persone che a quarant’anni hanno barattato la propria vita familiare per una “promettente” carriera da cicloamatore. In bici percorrono anche 15-20mila km all’anno: io per motivi di lavoro uso molto l’auto e, confesso, di stancarmi molto a percorrerne 80mila comodamente seduto!

Questi “campioni del dopolavoro”, dal mercoledì alla domenica sera non si rendono disponibili per i “doveri coniugali lasciando perplesse le loro mogli. C’è chi disputa due gare in un giorno, e chi in corsa se le dà di santa ragione – magari per un cambio saltato -. Per non parlare di chi per affrontare gare di 60 km si allena fino a 150 km, o di chi critica il premio ricevuto perché giudicato non all’altezza del proprio gesto atletico. Per finire con quelli che a sentirli parlare sembrano laureati con lode in farmacologia. Gli stessi che durante una gara, alla notizia del controllo antidoping presente all’arrivo, hanno preferito “prendere altre strade”: in quell’occasione chi nel gruppo non aveva la “coda di paglia” si è trovato a gridare – ingenuamente – ai “campioni” che stavano sbagliando direzione. “Campioni” che spendono cifre considerevoli per mantenere alto il proprio rendimento atletico con un uso scriteriato di farmaci, ovviamente proibiti, dicendo poi che a doparsi sono gli altri. Con qualcuno finito al pronto soccorso per strani malori o, peggio, per patologie che mal si conciliano con chi fa una sana pratica sportiva. E allora come si può non dare ragione al vecchio adagio che ci ricorda che la mamma degli imbecilli è sempre incinta.

Qualche volta la mia mente malata di sano senso sportivo partorisce illuminanti concetti da lasciarmi incredulo. Uno degli ultimi sancisce che ci sono due categorie di “praticanti”, non dico appassionati per non confonderli con i fanatici : “quelli che ci sono ma non ci credono” e “quelli che ci credono ma non ci sono”.

Che ognuno si identifichi dove meglio crede.

Gianni

Dedicato a “Mondo” l’uomo della diagnosi…

P.S. Un grazie infinito a te, Euro, mascalzone farabutto che, sapendo quali corde pizzicare nell’essere umano, mi hai costretto ad affrontare un viaggio fra le mai sopite emozioni, ad un esercizio cui non ero oramai più abituato.